
Nelle foto, una piccola rappresentazione di una fabbrica della Ford negli anni ’70 del ‘900. Si riconoscono la “catena di montaggio”, la “sirena” interna al reparto, un saldatore e la compresenza sul lavoro di bianchi e neri, uomini e donne. Queste ultime hanno da sempre svolto in fabbrica lavori duri al pari degli uomini, ma peggio retribuiti ed in mansioni degradanti, che venivano considerate “lavori da donne”. La fabbrica nel ‘900 è stato un luogo di conflitto verticale, tra i lavoratori e la proprietà, ed orizzontale, interno ai lavoratori, separati su linee di genere e di appartenenza identitaria (bianchi e neri, autoctoni e immigrati ecc.). Ma è anche stata un luogo di incontro, in cui i generi e le diverse comunità di lavoratori si ritrovavano unite nel lavoro, e spesso nelle rivendicazioni.
E’ l’industria a essere protagonista e artefice della “Grande trasformazione” che nel corso del ‘900 ha mutato irreversibilmente la fisionomia delle società occidentali. Consumi, modelli abitativi, culture del lavoro, dinamiche socio-relazionali, struttura della famiglia e livelli di istruzione cambiano sulla spinta dell’industrializzazione e della produzione di massa, che crea anche fenomeni sociali nuovi, come la nascita del tempo libero e del turismo su grandi numeri.
Durante il boom del dopoguerra, una massa crescente di prodotti industriali diviene alla portata di porzioni crescenti della popolazione. L’automobile è il settore trainante che fa da modello, ma ci sono anche frigoriferi, ventilatori, radio, televisioni, abiti prêt-à-porter, cibo in scatola. Mentre un numero crescente di persone varca i cancelli delle fabbriche per trovarvi lavoro, i prodotti che ne escono invadono le case dando vita alla “società industriale”, caratteristica peculiare del Novecento.
Sull’onda dello sviluppo l’Italia – nel 1951 paese ancora prevalentemente agricolo – passa nell’arco di un trentennio dalla fase della piena maturità industriale degli anni ’70 per approdare nel 1981 ad un assetto che vede la prevalenza di lavoro nel settore terziario, affiancato da una rilevante quota di forza lavoro industriale. I cambiamenti non sono tuttavia netti. Attraverso la pluriattività permarranno a lungo figure ibride, come il cosiddetto “Metalmezzadro”, soprattutto nella lunga fase di esodo dalle campagne negli anni ’50 e ’60.
Al centro di questi radicali cambiamenti ci sono gli uomini, le donne e le macchine. L’avvento dei macchinari muta gli assetti del lavoro, che si differenzia da quello artigianale classico puntando ai prodotti in serie. Sono le manifatture tessili, con grandi concentrazioni di manodopera femminile, le prime ad essere investite dall’innovazione tecnologica già negli ultimi decenni dell’800. Si faranno poi strada nel XX secolo il Taylorismo, con la pretesa di organizzare “scientificamente” il lavoro e la produzione al fine di massimizzarne il rendimento all’insegna del cronometro e del cottimo, e poi il Fordismo, con la grande fabbrica organizzata attraverso la catena di montaggio ed orientata alla produzione standardizzata su grandi numeri. La meccanizzazione tenderà a prendere il sopravvento sul fattore umano, con la diminuzione dell’importanza delle competenze e del sapere degli operai qualificati e l’aumento sostenuto degli operai comuni, adibiti ad operazioni semplici e ripetitive. Si diffondono anche gli utensili monofunzionali a discapito di quelli multifunzione.
Se il fordismo si concretizzerà solo nelle fabbriche gigantesche, come il Lingotto della FIAT a Torino inaugurato nel 1923, il taylorismo troverà applicazione un po’ ovunque. Accanto alle grandi concentrazioni operaie delle grandi città del nord come Torino e Milano, si svilupperà una classe operaia “periferica” impiegata in realtà industriali dalle dimensioni più contenute ed in quelli che diventeranno in epoca repubblicana i distretti della Terza Italia (Toscana e Veneto), con numerose imprese impegnate nel tessile, nel calzaturiero, nella produzione di mobili, nella. Inoltre, fuori dagli stabilimenti, il lavoro industriale troverà una sua forma di applicazione anche nel lavoro a domicilio, in particolare delle donne, in quantità ed estensioni tali da configurare la presenza di “fabbriche invisibili”.
Dopo la crisi degli anni ’70, l’organizzazione del lavoro industriale subirà nuovi mutamenti. Le grandi fabbriche tenderanno ad esternalizzare parti sempre più consistenti del processo produttivo ad aziende esterne “contoterziste”, sfruttando il reticolo delle piccole e medie imprese diffuse sul territorio italiano e dei distretti. Il fordismo verrà progressivamente sostituito da nuove formule, come la produzione flessibile e snella (lean production) che si adatta alla domanda (just in time). Il Toyotismo, che sposava questi nuovi modelli di produzione a diverse modalità di organizzazione del lavoro umano con il recupero di una quota di professionalità operaia ed il lavoro in squadre promettendo il superamento dell’alienazione alla catena di montaggio, diventerà la nuova parola d’ordine della grande industria. Nelle piccole e medie imprese italiane, le formule della produzione snella e flessibile e del just in time verranno tuttavia adottate senza rivedere sostanzialmente le modalità del lavoro umano alle macchine, che rimane legato al modello taylorista.
La compresenza di passato e presente segna dunque ancora oggi, nel XXI secolo, la realtà industriale, dove alle promesse dell’industria 4.0 e della smart factory delle multinazionali si affianca il permanere di modalità del lavorare industrialmente dal sapore novecentesco. Nel corso del ‘900 si realizza dunque una divaricazione fra la storia del lavoro industriale nelle grandi e grandissime imprese a vocazione globale e quella nelle piccole e medie aziende, fortemente territorializzate, e nei comparti del lavoro a domicilio.
Per approfondire
Libri
Bruno Settis, Fordismi. Storia politica della produzione di massa
Stefano Musso, Storia del lavoro in Italia. Il Novecento, 2 volumi